Nel sonetto di Foscolo, la sera ha i segni che conducono all’immagine del Nulla eterno. Il sole che declina ricorda che un altro giorno è trascorso: «e intanto fugge / Questo reo tempo», ci dice Foscolo; e ricorda a sé stesso e a noi la lezione del poeta Orazio: «Dum loquimur fugerit invida / aetas», (Odi, I, 11, vv. 7-8): «mentre parliamo, sarà fuggito il tempo malvagio». Il Nulla: quel continuo avvolgersi del tempo su sé stesso, che tutto trasforma, che distrugge e ricrea meccanicamente, che conduce ogni cosa all’oblio. E il pensiero vaga verso quel nulla, distendendosi nell’oscurità, e abbraccia le stelle, e le nubi cupe che portano la tempesta, o gli zefiri sereni dell’estate. Si creano sogni e fantasmi. La sera si trasforma nella notte e, di notte, si chiudono gli occhi, senza la certezza di riaprirli l’indomani. La notte, intesa come tale, fuori dalla metafora della morte, è un momento di quiete; è una morte momentanea, una sospensione della vita e del suo travaglio. Dal crepuscolo alla notte: «Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro…», scrive Dante nel II canto dell’Inferno, a sua volta usando un luogo virgiliano, nell’Eneide: «Nox erat, et terris animalia somnus habebat» (Aen. III, v. 147), «Era notte e in terra il sonno avvolgeva i viventi». I poeti amano parlare di questo passaggio dal crepuscolo alla notte, non resistendo al suo fascino. Ad esempio, ecco nel Novecento una poesia fulminante di uno dei nostri premi Nobel per la letteratura: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di Sole: / ed è subito sera» (Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera). Author: Studenti.it
Gabriele D'Annunzio
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